MILITARY STORY

IL MEMORIALE PIETROMARCHI #1940

Il conte Pietromarchi era all’epoca il direttore dell’Ufficio per la guerra economica del ministero degli Esteri, guidato da Galeazzo Ciano. E fu Pietromarchi a preparare un rapporto per Benito Mussolini sul blocco navale, poi pubblicato alla
vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia. Il 30 aprile 1940 Filippo Anfuso, capo di gabinetto della Farnesina, ordinò a Pietromarchi di preparare un rapporto sulla ”guerra marittima” da consegnare a Mussolini.

Secondo la rivista “Nuova Storia Contemporanea”, diretta dal professor Francesco Perfetti,  la stima dei danni venne calcolata in 50 milioni di lire. “Considerai la valutazione rispondente al vero perché i sequestri erano stati rallentati e i dissequestri quasi sempre concessi”, annota Pietromarchi nelle sue memorie inedite. Ma quella stima di 50 milioni
era poca cosa. “Mi chiedevo perciò se era possibile giustificare una protesta destinata ad avere una risonanza internazionale per un danno di 50 milioni di lire”, osserva nel suo diario. Pietromarchi ne parlò allora con Ciano, il quale rispose: “Denuncia un miliardo di danni”. E tale, osserva Pietromarchi, “fu la cifra riferita nel rapporto. Fu questo il solo dato non vero”.

12.5.1940

 

Il primo memoriale Pietromarchi

 

Il ministro plenipotenziario Luca Pietromarchi, capo dell’ufficio “Guer­ra economica” Presso il ministero degli Esteri, ha presentato al Duce la se­guente relazione.

 

Duce, nella sua nota diplomatica del 3 marzo il Governo fascista ha prospettato nelle sue linee generali la situazione creata al nostro armamento, alle nostre industrie e ai nostri commerci dal vigente sistema di controllo sui traffici marittimi e ha messo in rilievo le li­mitazioni spesso arbitrarie, sempre gravissime, che esso arreca alla libertà della navigazione, alla sicurezza dei rifornimenti, al lavoro e alla produttività della Nazione,

Il carattere saliente di tale organizzazione è di non rispondere ad alcun principio consacrato dalla legge internazionale, cosicché tutti coloro che, per le esigenze della loro attività, sono costretti a passare sotto le forche caudine del controllo, non sanno mai con certezza a quale norma attenersi. Vettori, spedizionieri, importatori di merci sono costretti volta a volta a indagare quali formalità, garanzie e procedure debbano seguire per avere una certa probabilità che le merci giungeranno a destinazione. Ne consegue che la condizione essenziale per la vita dei rapporti commerciali, e cioè la sicurezza delle, contrattazioni, è stata completamente bandita dalla vita econo­mica dell’Europa.

Quando poi una determinata procedura, per essere ripetuta­mente applicata, accenna a cristallizzarsi e a divenire una prassi nuo­ve diffidenze e nuore esigenze fanno sorgere la pretesa di garanzie sempre più draconiane e di formalità sempre più vessatorie. Cosic­ché questa macchina del controllo, per la complicazione del suo meccanismo, per l’arbitrarietà del suo funzionamento e soprattutto per la vastità del suo campo d’applicazione si rivela non soltanto co­me un’arma di lotta tra belligeranti, ma come uno strumento di ege­monia commerciale, destinato ad agire in settori che nulla hanno a che vedere col controllo sul contrabbando.

I reclami che ci vengono presentati dalle parti ingiustamente le­se, la documentazione che sistematicamente raccogliamo sui danni e sugli arbitri del sistema di controllo forniscono elementi dettagliati e precisi per avvalorare l’esattezza di quanto affermiamo. È pertanto sui fatti, e unicamente sui fatti più eloquenti di qualsiasi dimostra­zione, che io intendo richiamare l’attenzione per dare il senso preci­so della gravità della situazione.

Nessuna nave nazionale, che parta o che arrivi, può sottrarsi al controllo. Nessuna partita del carico sfugge a una minuziosa sor­veglianza eseguita sulle singole voci dei manifesti di carico. Nono­stante la minuziosità di tale controllo, la visita potrebbe, di regola, essere effettuata in alto mare e terminata in qualche ora, grazie al­l’attrezzatura perfetta delle nostre Società di navigazione e alla rego­larità scrupolosa della loro documentazione. Ed invece le autorità di controllo, insensibili ai danni dei ceti armatoriali, hanno elevato a norma abituale il dirottamento delle navi nei porti di controllo e il loro fermo per periodi che si sono prolungati anche dei mesi.

 

Mi sia consentito citare alcuni casi tipici presi dalla lista comple­ta dei fermi e dei dirottamenti che, complessivamente, ammontano a 857 dall’inizio delle ostilità al tre maggio corrente.

1l piroscafo “XXI Aprile” della Società Garibaldi subì delle visi­te di controllo a Aden l’8, a Suez il 16 e a Porto Said il 17 settembre. Nonostante ciò, fu fermato a Gibilterra dal 27 settembre al 6 otto­bre, e successivamente a Weymouth il 12 ottobre, ove fu trattenuto fino al 21, benché i noleggiatori avessero ottenuto dall’Ambasciata inglese l’assicurazione del pronto disbrigo delle pratiche di con­trollo.

Il piroscafo “Voluntas” della Società I.N.S.A., proveniente da Buenos Aires con ottocento tonnellate di cereali diretti a porti italia­ni, fu fermato a Gibilterra il 6 ottobre e non fu rilasciato che il 22, in totale 16 giorni di fermata.

Il piroscafo “Laura C.” della Società Italia, proveniente da Gal­veston e Huston, fermato il 7 ottobre a Gibilterra, fu rilasciato il 5 novembre. Fermato successivamente a Marsiglia il 10 novembre, vi fu trattenuto fino al 13 dopo aver scaricato tutta la merce. In totale oltre un mese di sosta.

Il piroscafo “Agata”, armatore Alfio di Napoli, fermato il 19 ot­tobre a Gibilterra, proveniente da Siviglia e dirottato a Genova cori un carico destinato alla Svizzera fu trattenuto circa un mese. Esso fu rilasciato il 15 novembre.

Il transatlantico “Augustus” della società Italia, è stato fermato a Gibilterra otto giorni dal 21 al 30 ottobre; caso tipico di sosta ec­cessiva imposta ad una nave di linea, che rappresenta da solo un danno di oltre un milione di lire per gli armatori.

Il piroscafo “Livenza” della società Italia, fu trattenuto a Gibil­terra dal 25 ottobre al 15 novembre.

Il piroscafo “Le Tre Marie”, dell’armatore Tripcovich, fermato il 10 novembre a Gibilterra con carico generale nominativo, vi fu trattenuto fino al 23 novembre, nonostante avesse subito un prece­dente controllo a Casablanca ove gli era stato perfino rilasciato un lasciapassare.

La motonave “Assiria” è rimasta ferma a Malta per controllo ben 25 giorni, dal 31 ottobre al 25 novembre.

Il piroscafo “Foscolo”, dirottato a Weymouth nel viaggio da Sussak a Rotterdam, fu trattenuto per 34 giorni, dal 28 dicembre 1939 al 30 gennaio 1940, e costretto a sbarcare parte del carico, no­nostante fossero state svolte in precedenza tutte le pratiche necessa­rie presso le autorità inglesi per assicurare un viaggio regolare.

Era da supporre che delle soste così prolungate fossero da at­tribuirsi all’imperfetta organizzazione del sistema di controllo nei primi tempi del suo funzionamento. Viceversa, il perpetuarsi di tale sistema fa ritenere che il fermo, tutte le volte che è stato prolungato oltre ogni limite di tolleranza, costituisca una misura di rappresa­glia, per motivi dei quali non sempre si riesce ad intuire la natura.

 

Anche in questi ultimi giorni non sono mancati casi del genere. La nave petroliera “Lucifero”, che portava un carico di oli lubrifi­canti per la “Romsa”, è stata fermata il 31 marzo a Gibilterra e di li dirottata a Malta, ove è stata fermata fino al primo corrente. No­nostante le nostre reiterate insistenze non siamo riusciti a sapere il motivo del fermo, né quando piacerà alle autorità di controllo di ri­lasciare la nave.

Alcune volte le navi sono rimaste interi giorni nei porti di con­trollo prima che le autorità si decidessero a eseguire la visita. Tale è il caso, tra gli altri, del piroscafo “Enrico Costa”, giunto ai Downs il 27 gennaio, ove attese quattro giorni prima che venisse effettuata la visita, il che dimostra incuria, o malvolere o insufficienza di personale addetto al controllo: in ogni caso, deficienza di organizzazione.

Nessuna norma regola il dirottamento. La nave di linea “Cam­pidoglio” dell’Adriatica, diretta dal Pireo a Istanbul, il 10 febbraio u.s. è stata, all’entrata dei Dardanelli, dirottata su Malta, dovendo così retrocedere per circa 600 miglia.

Analogamente il piroscafo “Capo Orso”, addetto alla linea Tir­reno-MarNero-Danubio, della Compagnia genovese di navigazione a vapore, nel viaggio Pireo-Istanbul venne dirottato il 16 febbraio u.s. presso l’entrata degli stretti, su Malta: dirottamento tanto più inspiegabile in quanto la nave era partita dall’Italia con carico inte­ramente coperto da regolari certificati di origine e non aveva effet­tuato al Pireo nessuna operazione di carico.

Altro caso tipico: il piroscafo di linea “Fenicia”, anch’esso del­l’Adriatica, nel corso di un viaggio da Istanbul a Brindisi, il 10 feb­braio u.s. fu dirottato su Malta prima di effettuare lo scalo al porto greco di Calamata e venne immediatamente rilasciato. Recatosi, al­lora, a Calamata, fu una seconda volta dirottato su Malta, mentre si dirigeva da quel porto nell’Adriatico.

Il piroscafo “Bosforo” della Società Adriatica, in viaggio dall’I­talia verso il Pireo e Istanbul, dopo avere subito un primo controllo da parte di una nave britannica presso l’isola di Zante, è stato ferma­to una seconda volta l’ 11 aprile e costretto a retrocedere su Malta sotto scorta. Successivamente, dopo avere già compiuto parte del viaggio verso Malta, il “Bosforo” è stato fermato una terza volta ed autorizzato a riprendere la rotta per Istanbul.

Si tenga presente che ogni dirottamento cagiona all’armatore spese ingenti. Non dovrebbe, perciò, essere imposto che per motivi gravissimi, soprattutto se il dirottamento costringe la nave ad un lungo percorso.

Un mezzo pratico per evitare il dirottamento è di rilasciare una speciale garanzia, in forza della quale il comandante della nave, pur di avere la possibilità di giungere senza ostacoli all’ultimo porto di destinazione, si impegna a non consegnare le partite di merci even­tualmente sospette fino a quando sia intervenuto ogni chiarimento da parte delle autorità di controllo.

Che se poi le partite sospette dovessero esser oggetto di seque­stro, il comandante si impegna, in virtù della stessa garanzia, a ritra­sportarle alla base di controllo che gli verrà indicata. Tale garanzia è ben nota nei ceti armatoriali con il nome di garanzia “hold back”. Orbene, più di una volta il dirottamento non ha avuto altro scopo che quello di fare rilasciare dal comandante la garanzia “hold back”, cioè di far adempiere una formalità. che avrebbe potuto, senza alcuna difficoltà, essere eseguita in altomare.

Particolarmente gravosi risultano i dirottamenti imposti a navi di linea, adibite cioè a un regolare servizio. Ogni ritardo, in tal caso, obbliga a spostare le partenze, a modificare gli orari con perturba­zione del servizio passeggeri e di quello merci.

Talvolta a un dirottamento ne segue un secondo, talvolta un ter­zo. Così il piroscafo di linea “Conte Biancarnano”, proveniente da Sciangai, dopo aver subito l’ 11 gennaio il controllo ad Aden ed aver rilasciato la garanzia “hold back”, all’uscita da Porto Said fu dirot­tato una seconda volta su Caifa.

Più recentemente il piroscafo “Maria”, recatosi per il controllo a Gibilterra il 22 aprile, vi ha sostato fino al 25 per poi ricevere l’or­dine di dirottare su Marsa Scrocco (Malta), dove è stato trattenuto fino al 5 maggio.

Il doppio dirottamento è spesso dovuto alla mancanza di coor­dinamento tra i servizi di controllo inglese e francese. Accade così che una nave, dopo aver passato la visita in una base di controllo ed essere stata rilasciata, venga nuovamente dirottata in una seconda base appartenente all’altro Paese.

Cito il caso del piroscafo “Maria Stella” dirottato su Dakar il 14 dicembre, mentre già si dirigeva a Gibilterra; dell’”Ariosto”, dirot­tato in condizioni analoghe su Casablanca,

Ancora più significativo è il caso del piroscafo “Libano”, diretto a Genova, dai porti del Portogallo. Questo piroscafo fu fermato a Casablanca il 21 febbraio, dove subì una prima minuziosa visita di controllo determinata, a quanto si seppe, da false informazioni in­viate da delatori prezzolati. Il 26 dello stesso mese, il comandante ri­cevette l’ordine dalle locali autorità marittime di scaricare tutta la merce imbarcata in Portogallo per poter procedere a una più pre­cisa verifica.

Invano il comandante fece presente che la sua Compagnia aveva rilasciato la garanzia “hold back” all’Ambasciata britannica in Ro­ma. Il 27 venne iniziata la .discarica; ma questa per ordine delle stesse autorità, venne fatta sospendere l’indomani. Fu necessario rimbarcare la merce sbarcata e il piroscafo ricevette l’ordine di re­carsi senza scali intermedi, a Gibilterra per esservi visitato da quelle autorità di controllo.

Il 28 il “Libano” è a Gibilterra e il 1° marzo le autorità di con­trollo salgono a bordo. Nella stessa giornata il “Contraband Con­trol Office” notifica al comandante che il piroscafo è detenuto. Il

giorno 3 nuovo contrordine: il “Libano” può partire ma deve sot­toporsi a una terza visita di controllo a Marsiglia. Di nuovo il co­mandante fa sapere che è stata prestata la garanzia “hold back”. Le autorità locali lo ignorano.

Nel pomeriggio del 4 la nave prosegue per la sua nuova desti­nazione. Il giorno 8 il “Libano” è a Marsiglia, il 13 è costretto a sca­ricare le merci che le autorità di controllo considerano sospette. Dopo ulteriori visite e accertamenti finalmente il 19 finiscono le pe­regrinazioni della nave che, per compiere il tragitto Vigo-Genova, ha dovuto impiegare 20 giorni.

Una nave che ha superato i rigori del controllo a Gibilterra non è mai sicura di non doverne subire un secondo a Casablanca o ma­gari a Dakar.

Una singolare odissea, dovuta alle interferenze e alla duplicità dei controlli da parte delle autorità francesi e britanniche, è stata quella di una comitiva di otto cittadini tedeschi rimpatriati dal Tan­ganika con biglietto di passaggio, sulla nave nazionale “Rosandra”, pagato dalle stesse autorità britanniche. Questi otto passeggeri, dopo aver effettuato la circumnavigazione dell’Africa, giunti il 30 dicembre a Dakar, vennero fatti sbarcare dalle autorità di controllo francesi. Imbarcati nuovamente sul “Duchessa d’Aosta”, vennero sbarcati, ancora una volta, ad Orano il 24 febbraio e dovettero su­bire una nuova sosta colà prima di poter riprendere il viaggio verso la Patria.

Talvolta il secondo dirottamento è imposto arbitrariamente dal­la stessa autorità che ha ordinato il primo, tanta è la disinvoltura di chi esegue il controllo e tanta l’indifferenza per i danni di chi ne è vittima. Spesso accade che, d’un tratto, si rimanga senza notizie di qualche nostra nave. È partita il giorno tale; era al tal punto il gior­no seguente, e poi? Non se ne sa più nulla. Che cosa è successo? Apprensioni, radiotelegrammi di ricerca che si incrociano fra le Compagnie di navigazione, le loro agenzie e le navi in alto ma­re. Nulla.

Che cosa è accaduto? Semplicemente che gli agenti del controllo hanno dirottato la nave e vi hanno messo a bordo una scorta armata per impedire che si comunichi per radio. In tal modo il piroscafo re­sta per cinque, sei, sette giorni recluso dal mondo, praticamente pri­gioniero delle autorità di controllo.

I danni di tale arbitrario comportamento delle autorità di con­trollo, sia per quanto riguarda i fermi e i dirottamenti di navi, sia per i sequestri ingiustificati di merci, sia soprattutto per i ritardi che subisce tutta l’importazione-mare non “navicertata” sono valutati, in base ad elementi denunciati dall’armamento, dalle assicurazio­ni, dagli organi confederali e dai privati, in una cifra che ammonta a un miliardo.

Qualcuno domanderà: chi paga i danni di tale arbitrario com­portamento? È evidente il nostro diritto alla loro piena rivalsa. Una documentazione precisa viene a tal fine tenuta a giorno dagli inte­ressati, ai quali il Governo fascista non ha mancato, né mancherà di dare prove efficaci e tangibili del suo interessamento.

La questione è oggetto di attento studio. È, a tal riguardo, signi­ficativo che la giurisprudenza delle Corti delle Prede riconosca agli ufficiali del controllo poteri discrezionali così illimitati e arbitrarii da togliere loro ogni diretta responsabilità nell’esercizio delle loro funzioni. Si tratta, è ben noto, di una giurisprudenza che risale ai tempi della marina a vela, nei quali le Corti delle Prede potevano considerare come “non irragionevole’ un fermo di nave per la du­rata di tre mesi o considerare giustificato l’atto di un ufficiale del controllo, quando non ne fosse provata la completa follia o la vo­lontà di delinquere. Ma è evidente che con criteri ben diversi debbo­no oggi valutarsi i danni dei fermi e dei sequestri che immobilizzano le navi e i carichi anche per periodi di qualche giorno, tanto è veloce il ritmo degli affari e il movimento degli scambi.

L’evidente solidarietà di interessi che lega il vettore al produtto­re merci e all’intermediario degli scambi rende comprensibile la collaborazione che si è stabilita tra queste tre categorie per la più ef­ficace tutela dai rigori del controllo. Si è potuto, perciò, ottenere che, analogamente a quanto fu messo in atto nella passata guerra, venisse istituito una specie di passaporto per le merci, che attestasse la legittimità della loro destinazione e assicurasse la libertà dei loro movimenti.

Tale documento è il “Navicert”. Nulla passa senza tale certifica­to. Le merci che ne sono prive sono elencate in documenti in base ai quali le autorità di controllo compiono una lunga inchiesta prima di procedere all’eventuale rilascio delle singole partite.

È avvenuto più volte che i passeggeri allo sbarco non abbiano potuto ritirare i loro bagagli personali senza il consenso del console straniero. Né è valsa, in alcuni casi, la loro qualifica di agenti diplo­matici, né le immunità del loro grado.

Un rigorismo così intransigente non ha mancato di dar luogo talvolta alle conseguenze più impensate e più assurde. In qualche caso di traslazione di salme, anche queste sono state iscritte tra le partite non “navicertate”, delle quali, come tali, non è autorizzata la consegna; giacché neanche per esse, sono previste eccezioni senza il benestare delle autorità di controllo, esse non sono ammesse nella pace della sepoltura.

A parte tali inconvenienze, si era sperato inizialmente che il siste­ma del “Navicert” avesse per conseguenza di alleggerire i controlli, facilitare i servizi di navigazione e ridare ritmo ai traffici. Ma le pri­me disillusioni non tardano a verificarsi. Il sistema dei “Navicert” funziona attualmente in soli tre porti dell’America e anche in questi porti le difficoltà per entrare in possesso di così prezioso documento sono infinite.

I pretesti per il rifiuto del documento sono i più impensabili. Ba­sta che il venditore della merce figuri su una lista nera, che natural­mente nessuno conosce, perché il documento sia rifiutato. In tal modo le possibilità di acquisti sugli stessi mercati neutrali vengono ristrette “ad libitum” delle autorità di controllo. Vi sono inoltre al­cune categorie di merci (semi di ricino, gomma, lana, metalli) per le quali, senza che se ne conoscano i motivi, il “Navicert” viene siste­maticamente rifiutato.

Anche quando però le merci sono coperte dal “Navicert” le dif­ficoltà non sono finite. Benché si tratti di un documento ufficiale, ri­lasciato dalle stesse autorità di controllo, accade di frequente che le merci iscritte su tale certificato vengano, senza alcun comprensibile motivo, trattenute o sequestrate: il che determina un senso di pro­fonda perplessità e di ben comprensibile disagio negli Enti inte­ressati.

Assai più precaria e delicata è la situazione delle merci che viag­giano senza “Navicert”, esposte come sono a tutte le alee che deriva­no dalla mancanza di norme precise e dalla illimitatezza dei poteri discrezionali attribuiti agli agenti di controllo. Si aggiunga che il se­greto più ermetico è deliberatamente mantenuto sui motivi che de­terminano una misura di sequestro.

Molte volte, come è stato facile appurare successivamente, la de­cisione delle autorità di controllo è provocata da false informazioni, da errori di nomi, da intercettazioni male interpretate; talvolta da delazione di ditte rivali; quasi sempre da uno zelo intemperante di autorità irresponsabili.

Nel dicembre scorso i carichi di cotone dei piroscafi “Maddale­na Odero”, “Monbaldo”, “Monrosa”, circa 5.000 balle, furono sequestrati dalla Corte delle Prede di Gibilterra e rilasciati solo tre mesi dopo perché, in seguito a notizie risultate infondate, si suppose che i cotoni fossero merce di contrabbando.

Nessun senso di proporzione esiste tra l’entità del danno che un fermo o un sequestro cagiona a vaste categorie di interessati e l’im­portanza dello scopo che, con tale misura, si vuol raggiungere. Val­ga per tutti il caso della nave “Caldea”, dirottata da Porto Said a Caifa e cioè costretta, a un lungo percorso solo per il fatto che a­veva imbarcato una, dico una, balla di cotone già fatta sbarcare da altro piroscafo.

Nei primi mesi della guerra le merci vincolate o sequestrate ve­nivano fatte sbarcare nei porti di controllo. A Gibilterra e a Malta giacciono ancora merci sequestrate in questo primissimo periodo. Ricorderò tra le altre una partita di cotoni “linters” sbarcata a Mal­ta nel novembre e per la quale pendono tuttora le trattative per lo svincolo.

Così a Gibilterra una partita di molibdenite destinata all’Ammi, ente parastatale e come tale insospettabile, è ivi tuttora giacente, né si riesce a venire a capo delle formalità da adempiere e tanto me­no a comprendere attraverso quali cervellotiche considerazioni ab­bia potuto giustificarsi il fermo di tale merce.

A tutti i nostri esportatori sono, per triste esperienza, ben noti i rischi che gravano sulle merci sbarcate nei porti dì controllo.

A parte i ritardi per rientrarne in possesso, a parte il costo delle pratiche occorrenti per muovere il lento e farraginoso meccanismo delle Corti delle Prede, pende spesso su tali merci il diritto, che talune autorità di controllo si sono arbitrariamente attribuito, di procedere alla loro requisizione o, senz’altro, di venderle, sotto lo specioso pretesto della loro deperibilità. Il che costituisce spesse volte un comodo e sbrigativo sistema per decongestionare le ban­chine, sulle quali continuano ad ammucchiarsi le merci sequestra­te, rendendo impossibile lo svolgimento delle regolari operazioni portuali.

Quando, infine, attraverso una lunga e penosa “via crucis”, il destinatario delle merci sequestrate riesce a dimostrare la sua perfet­ta lealtà e l’assoluta veridicità degli affidamenti dati, la riconsegna delle merci è subordinata a condizioni così vessatorie da far rasso­migliare strettamente la misura di controllo a un atto di pirateria.

Mi riferisco a questo riguardo ad alcune partite delle quali si sta trattando lo svincolo con le autorità di controllo di Malta. Lo svin­colo è subordinato all’assunzione dei seguenti impegni da parte dell’interessato:

— rinuncia a chiedere il risarcimento dei danni sofferti;

— rimborso delle spese che la Corona britannica ha dovuto so­stenere nel procedere al sequestro;

— rimborso delle spese portuali e cioè delle spese di pilotaggio, tasse, ecc., subite dalla nave per essere stata costretta ad entrare nel porto di controllo;

— rimborso delle spese di discarica e di magazzinaggio.

Ogni parola di commento è superflua. È evidente come il Gover­no fascista non possa tollerare disposizioni del genere. Esso non ha mancato di reagire nelle vie diplomatiche contro tali assurde prete­se. Il fatto stesso di chiedere una dichiarazione dell’interessato, che tenga indenni le autorità di controllo da ogni eventuale reclamo di perdita o di danno derivante dall’avvenuto sequestro, costituisce di per sé una implicita ammissione del danno che non s’intende risarcire.

Ancora più contraria ad ogni elementare principio di equità è la pretesa di ottenere, da chi è già stato leso da un ingiustificato seque­stro, anche la spesa della ingiusta misura inflittagli.

Per tutte le misure ora accennate, si è cercato da parte nostra d’incoraggiare gli armatori ad abbondare nel rilascio della garanzia cosiddetta “hold back”.

Le categorie produttrici ricevono la più valida assistenza da par­te delle amministrazioni e degli organi corporativi nell’espletare le numerose, complesse e difficili pratiche per lo svincolo delle merci.

Nonostante ciò, la situazione in alcuni nostri porti, e soprat­tutto a Trieste, è letteralmente intollerabile. Intere categorie di mer­ci sono sistematicamente bloccate. Nei porti di Genova e Trieste sono giacenti carichi di olio di oliva per oltre 25 mila quintali. Trat­tamento non diverso è fatto alle importazioni di tonno e pesce sot­t’olio, di sughero, di metalli, di semi di ricino.

Le stesse importazioni di cereali, ancorché affidate a enti para­statali o sotto l’immediato controllo delle Amministrazioni pubbli­che, come la C.I.S.C.L.A. e la Federazione italiana Consorzi agrari, le quali, si badi bene, per le disposizioni stesse del loro statuto si li­mitano a rifornire il mercato interno, sono soggette a ritardi, a for­malità e a difficoltà di ogni genere. Alcuni loro carichi sono stati trattenuti sulle banchine o sulle chiatte per periodi di oltre un mese, come è avvenuto per i piroscafi “Remo”, “Città di Bari”, “Ossag”, nonostante si trattasse di merce che, quando non sia conveniente­mente ricoverata, è facilmente deperibile.

Mi sia consentito di citare alcuni altri casi di merci giunte nei no­stri porti e trattenute a disposizione delle autorità britanniche di controllo. Pochi esempi, presi a caso. Il burro. Esiste da tempo in Italia il divieto di esportazione di tale prodotto. Le autorità di con­trollo possono, perciò, essere sicure che tutto il burro importato è e­sclusivamente destinato a coprire il fabbisogno nazionale.

Tuttavia, non si sa perché, nel febbraio scorso la burocrazia del “Contraband Control Office” si è accanita stranamente contro alcu­ne spedizioni di questo pacifico alimento diretto dall’Argentina ad alcune ditte italiane (Ottogalli, Polenghi e Lombardo, Cremerie Ita­liane di Cavriago).

A nulla vale il fatto che tali spedizioni siano regolarmente co­perte da “Navicert” e che gli interessati abbiano prestato ai consoli britannici le consuete garanzie avallate, per giunta, dalle Confedera­zioni interessate. Siamo vicini a Pasqua: il burro è richiesto insisten­temente dalle nostre industrie dolciarie per preparare le innocenti colombe pasquali. Invano: il burro deve restare sulle chiatte nel porto di Genova, esposto ai tepori del primo sole primaverile. Fi­nalmente i burocrati del controllo si rendono conto dell’errore commesso e rilasciano i carichi. Ma è tardi. Pasqua è passata e i dan­ni delle nostre industrie dolciarie e dei commercianti in tale ramo non sono rimborsati da alcuno.

Per restare nel campo degli alimentari, cito un altro caso re­centissimo di una partita di carne giunta dal Sud-America con il pi­roscafo “Mar Bianco” per la S.A.I.B., l’ente italiano che si occupa dell’importazione della carne congelata per il fabbisogno del R. E­sercito. Questo piroscafo aveva nel fondo delle sue stive 2.500 ton­nellate di carne caricate a Buenos Aires e sopra di esse altre 350 caricate a Montevideo e altrettante caricate in Brasile.

All’arrivo a Genova, il controllo dichiara che quelle caricate in Argentina sono libere, mentre quelle caricate in Uruguay e in Bra­sile no. Perché? Misteri della burocrazia del controllo. La prove­nienza è sempre neutrale. Altre partite sono giunte dalle stesse pro­venienze senza che siano state sollevate difficoltà e la destinazione è sempre la medesima: si tratta delle “scatolette” di carne per i nostri fanti. Nulla da fare: la partita è sequestrata.

Ancora “sub judice” è il caso di una partita di legname, compe­rata in Romania da alcuni commercianti di Bengasi. È possibile pensare che per spedire del legname dalla Romania in Germania, mentre lo si può mandare comodamente per via fluviale o per via di terra, lo si mandi a Bengasi? Eppure i cervelli del controllo possono anche concepire una cosa simile. Tanto vero che il piroscafo è stato dirottato su Malta, dove è stato trattenuto 15 giorni.

 

Passiamo ad altro. Un commerciante catanese compra un quan­titativo di semi oleosi in Turchia. Al controllo a Malta, senza alcun motivo, viene fatta sbarcare una parte della merce mentre la restante viene lasciata proseguire liberamente. Perché? Errore materiale o deliberato proposito d’inceppare i nostri traffici, di stringere cioè al collo dell’Italia una corda di malaugurata memoria sanzionistica? Comunque sia, nonostante che i semi oleosi siano una merce di cui è vietata in Italia l’esportazione e malgrado che l’importatore e gli organi corporativi abbiano dato l’assoluta garanzia che anche la malcapitata quota sbarcata a Malta è destinata esclusivamente al consumo nazionale, questa viene lasciata marcire per quasi cinque mesi, esposta alle intemperie sulle banchine del porto di Malta.

Finalmente un bel giorno il ministero della Guerra economica, confessando implicitamente l’equivoco preso, comunica che la quo­ta trattenuta è stata finalmente rilasciata. Ma la tragicornmedia non è finita. Le autorità di Malta, quando sono sollecitate dall’interessa­to a consegnare la merce, fingono di cadere dalle nuvole: esse nulla sanno dell’ordine di rilascio.

£ in ogni modo evidente che nell’eseguire un sequestro di merci le autorità di controllo astraggono da ogni considerazione sulla na­tura della merce stessa e sulla possibilità o meno di adibirla a fini bellici.

Valga, come esempio tipico, il fermo effettuato nel dicembre scorso di trenta tonnellate di uva passa “sultanina” giunta dalla Turchia col piroscafo “Quirinale”. Alla sorpresa manifestata dagli importatori che una merce del genere potesse in qualche modo interessare le autorità di controllo, queste non hanno esitato a dichiarare esplicitamente che i destinatari avrebbero potuto tornare in possesso dell’uva “sultanina” a patto però che ne effettuassero la vendita sul mercato britannico.

In altri termini, con o senza sequestro, non si voleva privare il pubblico britannico di questa tradizionale strenna natalizia.

Così come è stata sequestrata dell’uva passa “sultanina”, in altri casi sono stati sequestrati delle nocciole, delle mandorle, dei fichi secchi, del pepe. Materiale bellico? Evidentemente no, e nemmeno alimenti di prima necessità da considerarsi base della resistenza mi­litare di uno Stato. È chiaro che su merci di tal genere non dovreb­bero essere sollevate pretese di sequestro, indipendentemente dalla loro destinazione.

Per quanto, d’altro lato, in tutti i casi in esame la destinazione italiana delle merci fosse pienamente garantita, specialmente sul pepe si è impuntato il controllo: pepe proveniente dalle Indie o­landesi col piroscafo “Cortellazzo” per la nota fabbrica di conserve alimentari Arrigoni e C., col “Vulcania” per la ditta Seppilli, col pi­roscafo “Perla” e con l’”Himalaya” per vari altri destinatari.

E nemmeno il carattere umanitario e l’etichetta ginevrina ed in­ternazionale hanno potuto salvare certe spedizioni dallo zelo miope e cocciuto del controllo. Voglio alludere agli invii effettuati dalla Croce Rossa di alcuni Stati americani alla Croce Rossa internaziona­le di Ginevra per mezzo di piroscafi italiani, “Beatrice”, “Sirio”, ecc. Casi tutti, naturalmente, in cui il controllo si è rilevato altrettan­to pedante quanto inutile, poiché dopo una lunga e superflua sosta le spedizioni hanno dovuto essere rilasciate.

Numerosissimi ancora sono i casi che potrei citare di merci se­questrate sebbene la loro destinazione non potesse dar luogo a dub­bi. Così il sequestro di 2.000 tonnellate di sabbia, per le nostre ve­trerie, giunte a Napoli col piroscafo “Petrarca” dal Belgio; quello di macchine compositrici destinate a un giornale di Roma, giunte col “Conte. di Savoia” a Genova il 7 aprile; di cappelli di paglia giunti col “Fella” a Genova l’11 aprile; di sarde salate giunte col “Vulca­nia” e il “Saturnia” per l’Ente nazionale fascista per la Cooperazio­ne; di acquaragia giunta col “Città di Bari”; di numerosi invii di uova lasciate marcire inutilmente, di stracci, di sughero, di cacao e di tanti altri tipici esempi che tralascio per brevità.

La stessa distribuzione del caffè per il mercato interno era stata messa in pericolo per il fatto che gli invii di caffè erano stati tratte­nuti in attesa che arrivassero agli organi di controllo “delle infor­mazioni”.

Tutti questi casi e infiniti altri, che sarebbe troppo lungo enu­merare, non possono che lasciare perplessi sul modo con cui il con­trollo è organizzato e sulle direttive secondo le quali esso viene ap­plicato nei nostri riguardi.

L’elemento più grave, lo ripetiamo ancora una volta, è l’incer­tezza, la mancanza di norme precise, l’arbitrio. I sospetti si acuisco­no e si moltiplicano di giorno in giorno. Inizialmente faceva piena fede “l’affidavit”, e cioè la garanzia rilasciata dall’importazione sul­la destinazione della merce. Poi si è preteso il visto delle autorità di controllo, per convalidare la serietà della garanzia. Anche questo è apparso insufficiente. Si è aggiunta allora la garanzia di un organo corporativo. Ma anche questo non basta. Si vorrebbe ora il rilascio di analoghe garanzie da parte di tutta la catena dei commercianti al minuto che acquistano dall’importatore. Si è, cioè, considerata l’assurda possibilità di seguire la destinazione della merce sul mercato interno attraverso tutta la fila degli intermediari, quasi che fosse compatibile nello Stato fascista lasciare ad autorità straniere di dare il loro gradimento alle operazioni del commercio interno.

La manovra, v’è appena il bisogno di dirlo, è stata stroncata sul nascere dalla sorveglianza delle nostre autorità di Governo.

Ho accennato finora alle difficoltà degli importatori per riforni­re il mercato nazionale. La situazione non è affatto più rosea per quanto riguarda gli esportatori.

Siamo in un settore nel quale tutte le disposizioni delle autorità di controllo sono in flagrante antitesi con quanto dispone la legge internazionale. Il divieto di commerciare con il nemico è un grande atto di imperio che un Governo è nel suo diritto di esercitare verso i propri sudditi, ma che diventa imposizione assurda, antigiuridica ed immorale quando si tenti di applicarlo oltre le frontiere del pro­prio Stato. Era perciò comprensibile che in questo settore le auto­rità di controllo avrebbero proceduto con particolare cautela. È in­vece soprattutto in questo campo che si accumulano le più esose misure.

Una merce non viaggia via mare se non è accompagnata da un certificato di origine delle autorità di controllo. Ma le condizioni per il rilascio di tale certificato sono le più estrose, arbitrarie e mute­voli. Il certificato è rifiutato se sorga il sospetto che nella Società esportatrice esista la cointeressenza di altra ditta appartenente a Paese belligerante. Il certificato è rifiutato se la merce è destinata a ditte che figurano su una lista nera, che, naturalmente, nessuno co­nosce. Il certificato è rifiutato se sorga il sospetto che nella merce da esportare sia incorporato più del 25 per cento di valore tedesco, quasi che sia un’operazione tecnicamente possibile accertare, ad e­sempio, come è stato preteso più volte, se nella tinteggiatura di stof­fe nazionali siano state in parte adoperate materie coloranti di pro­venienza straniera. Il rifiuto del certificato d’origine equivale alla proibizione di esportare.

Mi affretto a chiarire che i casi sporadici di tal genere, verificatisi finora, hanno provocato l’immediata reazione del Governo fascista il quale, sia detto una volta per sempre, non è disposto ad ammette­re che enti e società costituiti in Italia e che hanno, come tali, la personalità giuridica italiana, ricevano ordini e imposizioni da au­torità straniere.

Ma i fatti non hanno meno per questo il significato di sintomi, tanto più gravi in quanto non è mancata in alcuni casi la spudo­rata pretesa di ottenere dalle ditte la presentazione dei loro più gelo­si documenti contabili. Il Governo fascista ha anche questa volta stroncato immediatamente tentativi del genere, col far rigoroso di­vieto alle ditte di prestarsi a tali umilianti richieste e con l’esigere dalle autorità di controllo di restare nei limiti loro imposti dal ri­spetto della sovranità dello Stato.

Non meno arbitrariamente e con non minore disinvoltura si esercita il controllo “alleato”, soprattutto britannico, sulla corri­spondenza postale e sui valori trasportati dalle nostre navi, e ciò a dispetto delle norme di Diritto internazionale sancite dall’undicesi­ma convenzione firmata all’Aja nel 1907, secondo la quale la corri­spondenza, anche quella diretta al nemico, è inviolabile. Viceversa la censura anglo-francese viene sistematicamente applicata non solo ai sacchi postali a destinazione della Germania, ma anche a quelli diretti a Paesi non belligeranti. Si è cercato perfino di estendere tale controllo alla posta diretta dall’Italia in A.O.I., alle isole dell’E­geo e viceversa.

Alle rimostranze mosse dal Governo fascista, nonché da nume­rosi altri Governi di Paesi non belligeranti, le autorità di controllo hanno cercato di giustificare il loro atteggiamento sostenendo che il sequestro della posta da esse eseguito non era diretto ad accertare il contenuto della corrispondenza e cioè ad eseguire una vera e pro­pria censura postale, bensì ad assicurare che i plichi e le lettere non contenessero oggetti di contrabbando.

Resta però il fatto che i sacchi postali sequestrati vengono mano­messi senza che il comandante o alcun ufficiale della nave che ha tra­sportato la posta assistano alle operazioni di controllo. Essi non sono perciò in grado di attestare se il segreto sia o no salvaguardato, nonostante che essi, quali consegnatari della posta stessa, ne siano, almeno in linea di principio, responsabili. Che non si tratti d’altro canto di semplice controllo sul contrabbando ma di vera e propria censura postale è provato da alcuni casi pienamente accertati nei quali il segreto postale fu pubblicamente violato.

Citerò il caso del piroscafo “Tevere”, fermato in alto mare il 3 ottobre 1939, a bordo del quale alcune lettere furono aperte e lette da un interprete ad un ufficiale britannico che prendeva delle note.

Nessun chiarimento e nessun ragguaglio vengono forniti dalle autorità di controllo sui plichi e sui valori da esse trattenuti.

Esse si limitano a restituire parte dei sacchi senza precisare se essi siano o no al completo; il più delle volte la restituzione ha luogo in occasione del passaggio di un successivo piroscafo, senza precisare da quale piroscafo detti sacchi siano stati sottratti.

È evidente che tale mancanza di ragguagli precisi mette nella im­possibilità tanto il comando delle navi, a bordo delle quali è effet­tuato il prelievo, quanto l’Amministrazione delle Poste italiane, di rispondere dei plichi e dei valori ad essi affidati. A prescindere per­tanto dall’inammissibilità di tale operazione è evidente il gravissimo danno che viene recato in tal modo agli innumerevoli e cospicui in­teressi privati che in nulla interferiscono con le ostilità in corso.

Tale sbrigativo modo di procedere da parte dell’autorità di con­trollo ha soprattutto come conseguenza di rendere estremamente precarie le contrattazioni commerciali a distanza. Per di più esso molte volte mette i compratori nell’impossibilità di esibire in tempo le prove che queste richiedono sulla “innocenza” della destinazione delle merci acquistate, dato che i documenti a riguardo giungono con estremo ritardo, quando non siano stati trattenuti e soppressi dalla censura postale.

Nessun segreto, né privato né commerciale, viene perciò salva­guardato. Talvolta la censura non ha neanche risparmiato dispacci ufficiali diretti ad Amministrazioni pubbliche nel Regno e neppure plichi diplomatici. Il Governo fascista non ha mancato di protestare più volte contro tale modo di procedere, sia sollevando la questione di principio, sia segnalando casi particolari.

Questi miei rapidi cenni sul funzionamento del controllo credo siano sufficienti a dare una idea approssimativa dei danni gravissimi che l’economia della Nazione subisce non solo dal fatto in sé del controllo, ma dal modo nel quale esso è esercitato. A questo punto la questione esorbita dal campo strettamente tecnico ed ammini­strativo per assumere aspetti e sviluppi di ben diversa importanza. A me basti segnalare la gravità della situazione.

 

9.6.1940

Il secondo memoriale Pietromarchi

 

Il ministro plenipotenziario Luca Pietromarchi, capo dell’Ufficio “Guerra economica” presso il ministero degli Esteri, ha inviato al Duce un secondo rap­porto concernente il blocco e i danni sofferti dall’Italia. Eccone il testo:

Duce, la relazione presentata l’11 maggio segnalava i danni arre­cati alla economia della Nazione dal controllo alleato sui traffici marittimi. Le repliche mosse a tale esposizione circostanziata dei si­stemi applicati e delle conseguenze subite non hanno potuto in­firmarne la portata giacché non era possibile contestare l’esattezza dei fatti citati.

L’affermazione, ad esempio, che gli alleati, lungi dal fare del bloc­co uno strumento di egemonia commerciale, non hanno nemmeno preteso valersi di tutti i diritti loro spettanti quali Potenze bellige­ranti, ha per il popolo italiano il sapore di un amaro sarcasmo. Lo stesso dicasi quando si pretende far “tabula rasa” delle prove ad­dotte sull’intollerabilità del controllo con lo specioso argomento che, anziché essere soffocata dal blocco, l’economia italiana ha avu­to, nel corso degli ultimi mesi, un considerevole sviluppo, quasi che al popolo italiano non resti che ringraziare le autorità di controllo dei sacrifici del blocco.

Ugualmente destituita di fondamento è l’asserzione che i fermi e i dirottamenti di navi risalgano quasi tutti ai primi mesi della guerra o che riguardino solo piroscafi di minor conto. È vero, al contrario, che una recrudescenza di dirottamenti, soprattutto nel Mediterra­neo orientale, si è verificata nel mese di aprile. In tal mese sono stati fermati o dirottati 69 piroscafi, il numero delle giornate di sosta è stato di 337, quello dei giorni perduti in dirottamenti 45 con un to­tale di 382 giorni perduti.

Dal 1° al 25 maggio i piroscafi fermati sono stati 33 con un totale

di 105 giornate di sosta. Complessivamente i fermi e i dirottamenti di navi nazionali sono giunti alla cifra di 1.347 alla data del 25 mag­gio.

E non soltanto i piroscafi mercantili o quelli di minor tonnellag­gio sono stati sottoposti ai fermi e ai dirottamenti, anche i transa­tlantici di lusso addetti alle linee celeri con le Americhe sono stati costretti a subire ritardi tali da portare grave pregiudizio all’eserci­zio delle linee stesse e agli interessi dei passeggeri. È evidente che per tali transatlantici anche poche ore di ritardo in uno scalo non previ­sto siano sufficienti a provocare il ritardo di un giorno nell’arrivo determinando un notevole perturbamento degli itinerari predispo­sti e delle corrispondenze con le altre linee, oltre a causare perdite fi­nanziarie sempre gravi alle Compagnie armatrici.

Così il transatlantico “Rex”, addetto alla linea celere di gran lus­so con il Nord America, è stato trattenuto dodici ore a Gibilterra il 5 maggio, il transatlantico “Conte di Savoia” è stato trattenuto a Gi­bilterra il 6 maggio nove ore.

Tutte queste conseguenze di un duro sistema di controllo era­no state chiaramente prevedute dal Governo fascista che non attese l’aggravarsi della situazione per agire con la sua abituale risolutezza. La sua presa di posizione fu netta. Esso, pretese, fino dall’inizio, che le misure relative al controllo rimanessero nei limiti ben circoscritti del Diritto internazionale, né mancò di formulare le più precise pro­teste contro le disposizioni illegali delle quali si rifiutò di riconosce­re l’applicazione.

Desideroso d’altro canto che le proteste non restassero sterili e schivo di ogni comoda posizione di agnosticismo, esso scese imme­diatamente sul teatro delle realizzazioni pratiche, col presentare alle autorità di controllo delle proposte precise, dirette a ricondurre il sistema da esse adottato sul terreno della legalità e a promuovere, di comune accordo, una procedura semplice, pratica e sufficiente­mente elastica.

Viceversa la situazione venne costantemente ad aggravarsi. Il 28 novembre i Governi britannico e francese proibirono tutti i traspor­ti marittimi di merci dai porti germanici, nonché la esportazione di tutte le merci di origine germanica dai porti dei Paesi non belli­geranti.

Per effetto di tale divieto tutte le misure del controllo, gravanti fino allora sulle loro importazioni, vennero “ipso facto” estese alle esportazioni. In un avviso delle autorità di controllo, gli armatori dei Paesi non belligeranti furono ammoniti di dare istruzioni ai ca­pitani delle proprie navi di fare scalo nelle basi alleate giacché ove non vi avessero fatto scalo volontariamente, le navi predette avreb­bero potuto esservi dirottate per l’esame del carico.

Il controllo esteso così alla totalità delle importazioni e delle e­sportazioni, costituiva una forma larvata di blocco ai danni dei Paesi non belligeranti e in particolare dell’Italia. Delle misure urgentissi­me di difesa erano necessarie. In conformità alle istruzioni impartite in tali contingenze, venne attuato uno stretto coordinamento tra le amministrazioni più direttamente interessate e l’unità d’azione per controbattere il blocco fu accentrata nell’Ufficio della guerra econo­mica appositamente costituito. L’Ufficio riprese immediatamente le trattative in seno al Comitato permanente italo-britannico, patroci­nando i seguenti punti:

1) abolizione del dirottamento delle navi;

2) estensione del sistema dei “Navicert”;

3) esclusione del controllo sulle esportazioni con far accompa­gnare le merci esportate da un certificato d’origine delle autorità corporative italiane;

4) abolizione del controllo sulle comunicazioni fra l’Italia, l’Albania, il Dodecanneso, la Libia e l’Africa orientale italiana.

Un pro-memoria, contenente precise proposte in tal senso, ven­ne presentato alla Delegazione britannica nella riunione dell’11 di­cembre 1939. In attesa che le misure proposte venissero prese in considerazione, il Governo fascista segnalò a Londra la situazione estremamente grave che si era venuta creando a danno dei traffici nazionali in conseguenza dei sequestri e dei vincoli, sempre più nu­merosi, di merci italiane.

Non solo le banchine dei porti di controllo erano ingombre di merci, ma gli stessi porti italiani erano congestionati a un punto inverosimile dalle partite vincolate dalle autorità di controllo. Non es­sendo più sufficienti le banchine, si era anche ricorso al sistema di trattenere le merci a bordo delle navi, così che queste ultime erano diventate dei depositi a disposizione delle autorità di controllo, con la conseguente impossibilità di attendere il loro normale servizio.

Eravamo in presenza di una vera paralisi dei nostri commerci: i carichi si deterioravano; i diritti di magazzinaggio salivano a cifre a­stronomiche; più di uno stabilimento industriale era costretto, per il ritardo delle materie prime, a sospendere e a ridurre la lavora­zione.
Fu perciò preteso e ottenuto un colpo di spugna per tutte le mer­ci vincolate. Il 28 dicembre ebbe inizio il decongestionamento dei porti. Il 5 gennaio le proposte italiane di una nuova procedura per l’applicazione del controllo furono discusse dal Comitato perma­nente italo-britannico.

Con quale spirito il Governo di Londra prendesse in considera­zione le proposte italiane fu dimostrato da un pro-memoria, rimes­so in data 9 gennaio dal presidente della Delegazione britannica, per far conoscere che un alleggerimento del controllo era bensì possibi­le, a condizione che l’Italia si sottomettesse a una politica di “con­tingentamento”. Al paragrafo 9 di detto “memorandum” era infatti proposto di “sostituire” alle garanzie specifiche date ora dai privati italiani interessati delle garanzie globali, redatte secondo la stessa formula, per dei COMPLESSI DI MERCI, SPECIALMENTE MATERIE PRIME, DI CUI GLI IMPORTATORI INTERESSATI RITENGONO DI AVERE BISOGNO PER DATI PERIODI.

Nel paragrafo 10 era precisato che “gli accordi” circa tali garan­zie sarebbero presi direttamente dal presidente o da un membro della. Delegazione inglese del Comitato italo-britannico, NEI RIGUARDI DEI QUANTITATIVI E DEI PERIODI DI TEMPO. Nei paragrafi successivi

erano previste le modalità per modificare, ove fosse stato necessa­rio, i contingenti stabiliti.

Era ben comprensibile che il governo fascista si rifiutasse, come difatti si rifiutò, non solo di discutere, ma benanco di prendere in considerazione una proposta di tal genere, altamente lesiva della sovranità, della libertà e del prestigio dello Stato italiano. E tuttavia da ritenere lo scopo della proposta britannica: di servirsi, cioè, del controllo, esercitato nel modo più rigido e totalitario, per obbligare l’Italia ad accettare una limitazione delle sue importazioni, metterla in tal modo nell’impossibilità di costituirsi delle riserve e di portare avanti a ritmo accelerato la sua preparazione bellica, e nello stesso tempo mettere a disposizione del Governo inglese dettagliate e com­plete informazioni sul nostro programma di rifornimenti e sul fab­bisogno della produzione nazionale.

Il Governo italiano, nel respingere la proposta inglese, tornò ad insistere sul valore della garanzia che esso si era dichiarato disposto a concedere nel progetto d’accordo per il commercio ed i traffici.

Riferisco alcuni casi di fermo particolarmente ingiustificati ve­rificatisi nel più recente periodo: la nave “Campidoglio” della ga­ranzia “hold back” che gli ufficiali di controllo rifiutarono di accettare. Peraltro dopo un giorno di sosta a Malta, dal 22 al 23 aprile, la garanzia fu accettata e la nave poté riprendere il viaggio.

Il piroscafo “San Pietro”, nonostante avesse ricevuto l’autorizzazione a partire dalle autorità francesi di Marsiglia, ove la nave ave­va lungamente sostato per scaricare i minerali di ferro imbarcati a Melilla, fu fermato a Gibilterra dal 24 al 25 aprile, benché viag­giasse a vuoto.

Il piroscafo “Villarperosa” è stato trattenuto a Gibilterra cinque giorni, dal 21 al 25 aprile, per una piccola differenza di 350 tonnellate riscontrata fra il quantitativo di rottami di ferro indicato nei “Navicert” e quello segnato nella polizza di carico.

La navecisterna “Alberto Fassio”, recante 3.500 tonnellate di petrolio da Costanza per Napoli a destinazione dell’Agip, è stata di­rottata su Malta l’11 maggio, malgrado che l’Agip avesse fornito da oltre venti giorni regolari garanzie alle autorità britanniche.

Speciale menzione merita il caso della motocisterna “Nautilus” fermata e sottoposta a visita di controllo da una unità da guerra bri­tannica il 22 aprile, mentre navigava da Karavassai a Valona, vale a dire in pieno Adriatico, nonostante che il traffico tra l’Italia e l’Al­bania non abbia evidentemente alcuna rilevanza agli effetti del contrabbando. Il piroscafo “Alicantino”, nel suo viaggio da Casalbanca a Genova, è stato fermato a Marsiglia il 10 aprile scorso ed ivi trattenuto fino al 15 dello stesso mese. Le autorità francesi di blocco hanno cioè impiegato ben cinque giorni per esercitare il controllo su meno di 150 tonnellate di merce delle quali è stato ordinato lo sbarco.

Il piroscafo “Africana”, in viaggio da Genova per gli Stati Uniti d’America, è stato fermato il 20 aprile 1940 da una cannoniera inglese al largo di Punta Europa e trattenuto a Gibilterra per le openazioni di controllo fino al 3 maggio, cioè 14 giorni.

Il 5 maggio, il “Vulcania” è stato trattenuto 12 ore unicamente per il controllo postale. La lunga sosta obbligata è stata causata dalla lentezza delle operazioni di verifica, di sbarco ed imbarco dei pacchi di posta.

È noto che ritardi di tale genere sono dovuti a deficienza di personale di controllo e di mezzi appropriati.

Il piroscafo “Perseo”, in navigazione da Melilla a Bagnoli, il giorno 10 maggio è stato fermato e dirottato a Biserta e solo il 12 è stato autorizzato a lasciare quel porto.

Anche nei riguardi del controllo sulla posta la situazione è peggiorata, come risulta dal seguente elenco di sacchi postali fatti sbar­care dai nostri piroscafi nei mesi di aprile e di maggio.

MESE DI APRILE: “Leme” 254 sacchi; “Saturnia” 308 sacchi; “Du­chessa d’Aosta” 7 sacchi; “Neptunia” 561 sacchi; “Oceania” 857 sacchi; “Brioni” 82 sacchi; “Conte Biancamano” 1.028 sacchi; “Fella” 9 sacchi; “Recco” 33 sacchi; “Conte di Savoia” 1.096 sac­chi; “Rex” 910 sacchi; “Rialto” 36 sacchi; “Augustus” 222 sacchi; “Conte Rosso” 107 sacchi; “Principessa Maria” 291 sacchi; “Adria­tico” 108 sacchi. Totale sacchi 5.909.

MESE DI MAGGIO: “Roma” 148 sacchi; “Conte di Savoia” 913 sac­chi; “Rex” 1.124 sacchi; “Vulcania” 1.575 sacchi; “Sistiana” 51 sacchi; “Conte Grande” 515 sacchi; “Fella” 224 sacchi; “Principes­sa Giovanna” 40 sacchi; “Principessa Maria” 842 sacchi; “Oceania” 233 sacchi; “Conte Grande” 682 sacchi. Totale 6.347 sacchi.

Oltre ai sacchi contenenti la corrispondenza da e per l’estero sono stati sottratti sacchi contenenti valori e pacchi. Né è stata ri­sparmiata la posta fra l’Italia e l’Impero.

In cifre complessive per il solo mese di aprile si hanno i seguenti totali di sacchi postali da e per l’Africa Orientale Italiana sequestrati dal controllo britannico su piroscafi italiani.

MESE D’APRILE: “Somalia” 5 sacchi; “Adria” 10 sacchi; “Ramb 2°” 7 sacchi; “Eritrea” 4 sacchi; “Ramb 4°” 4 sacchi; “Gerusalem­me” 7 sacchi; “Leonardo da Vinci” 7 sacchi. Totale 44 sacchi.

Molti degli inconvenienti per fermi e sequestro di merci verifica­tisi nei mesi precedenti si sono ripetuti nel mese di maggio. Abba­stanza frequenti “sono stati i casi nei quali anche le merci coperte dal “Navicert” sono state fermate e sequestrate.

Così una partita di generi alimentari inviata, si noti, dalla Croce Rossa Americana per la popolazione civile polacca è stata recen­temente trattenuta a Genova nonostante fosse accompagnata dal “Navicert”.

Il piroscafo “Mar Bianco” ha sbarcato il 30 aprile a Genova ca­richi di carne regolarmente “navicertati” provenienti dall’Uruguay e destinati a una ditta italiana. Lo svincolo è stato atteso sino all’11 corr.; così pure 203 balle di lana spedite con regolare “Navicert” da Durban al Lanificio Marzotto con il piroscafo “Palestina” sono stati posti sotto sequestro a Venezia. Infine per sbarcare 5 casse di olio di ginepro “navicertato” il transatlantico “Roma” è rimasto un gior­no e mezzo a Gibilterra, dal 6 al 7 corrente.

I ritardi si prolungano quando hanno luogo interferenze fra i due controlli. Così l’intero carico del “Città di Siviglia” giunto a Geno­va con diversi “Navicert” rilasciati da Consolati britannici è stato colà posto sotto sequestro dal controllo francese.

Del resto il sistema del “Navicert”, nonostante che sia stato in­trodotto dal dicembre 1939, non ha mai avuto una regolare appli­cazione. Avviene sovente che l’istanza per ottenere tale documento attenda inevasa per settimane e settimane col risultato che il carica­tore si trova nell’alternativa o di spedire la merce senza “Navicert” — il che comporta ulteriori ritardi e difficoltà per ottenere lo svinco­lo della merce — oppure lasciare la merce sulle banchine.

Non sono mancati, anche in quest’ultimo periodo, casi di merci trattenute nei porti di arrivo non meno di un mese prima di essere liberate. Altre merci, ancorché di nessuna importanza per quanto riguarda la possibilità del loro impiego bellico, sono state capric­ciosamente fermate. Così 248 casse di acciughe salate, giunte dal Portogallo col vapore “Sidamo” sono rimaste bloccate a Genova per oltre 45 giorni, tanto che il loro contenuto è in buona parte marcito. A Trieste sono state fermate 80 balle di sacchi vuoti giunti con il “Vulcania” per una ditta italiana. Persino dei campioni di penne stilografiche, spedite da Genova a Barcellona con il “Franca Fassio”, sono stati sequestrati dal blocco a Marsiglia.

Sedici fusti di acqua ragia giunti a Genova col piroscafo “Go­thia” per la ditta Pozzo di Roma sono stati, senza alcun motivo, fatti rispedire a Marsiglia. 1.384 quintali di colofonia sono stati venduti a Marsiglia senza nemmeno che la ditta interessata fosse informata.

La conseguenza di tali ritardi, per alcune categorie di merci è disastrosa.

Un carico di orzo e grano, che il piroscafo “Brenta” scaricava ai primi di maggio, si è trovato, in seguito al lungo ritardo, in gran parte rovinato dagli insetti.

Assai più gravi per la facile deteriorabilità della merce sono i fer­mi di frutta fresca. Tale è stato il caso di un carico di 500 casse di pe­re per la Federazione Italiana Consorzi agrari giunte a Genova col “Conte Grande”, che non avevano alcun bisogno di completare la maturazione in quel porto in attesa del rilascio.

Si è già accennato che la natura pacifica dei carichi non li esenta dai rigori del controllo. Un esempio significativo è offerto dalla si­tuazione del porto di Trieste.

Ecco alcuni dati relativi a partite di merci fermate o sequestrate in quel porto dal gennaio scorso.

Dai piroscafi “Volpi”, “Fusijama”, “Cortellazzo”, “Himalaya” varie partite di tè per oltre 350 quintali. Dal piroscafo “Lovicen” 100 quintali di fichi. Dai piroscafi “Vulcania”, “Neptunia”, “Oceania”, 850 quintali di cacao. Dal piroscafo “Cortellazzo” 158 quintali di cassia e 500 casse di salmone. Dai piroscafi “Himalaya”, “Gim­ma”, “Saturnia”, “Oceania”, “Perla”, “Cortellazzo” 2.360 quintali di caffè. Dai piroscafi “Himalaya”, “Vulcania”, “Perla”, “Moena”, “Cortellazzo”, “Christiaan Huygens” varie partite di pepe per l’am­montare complessivo di 3.640 quintali.

A Trieste vi sono commercianti che reclamano merci fermate fin dal mese di ottobre.

Da quali ragioni siano ispirate talune improvvise e sorprendenti deliberazioni degli organi centrali del controllo rimane quasi sem­pre un mistero. Così il 14 maggio, per la prima volta, è stato ferma­to a Gibilterra un motopeschereccio della “Genepesca”, 1′ “Amba Alagi”, che rientrava al termine di una sua fruttuosa campagna.

Non era la prima volta che un nostro peschereccio passava sotto gli occhi del controllo. In media ne passa uno al mese. Ma nel perio­do precedente, a nessuno era venuto l’assurdo sospetto che il pesce a bordo potesse essere merce di contrabbando. Ad un tratto l’ordine di fermare i pescherecci italiani venne impartito al “Contraband Control” di Gibilterra. Ma quali documenti chiedere a dei battelli che non toccano scali regolari, ma sì spostano là dove trovano zone più pescose nella sconfinata libertà del mare aperto? Fu dovuta per­ciò imbastire un’affrettata corrispondenza per strappare dalle unghie del controllo una merce facilissimamente deperibile e che era costata settimane e settimane di gravi e rischiose fatiche. Ora è e­vidente che ogni ritardo sarebbe stato evitato se fosse venuto alla mente dei signori del controllo di chiedere anticipatamente delle garanzie che, ancorché superflue, nessuno avrebbe loro negato.

I rigori del controllo non sono un privilegio riservato alle sole merci italiane. Così il piroscafo “Cervino” ha dovuto sbarcare a Da­kar, verso i primi di maggio, della merce svizzera diretta al Brasile e cioè merce di origine e destinazione neutrali, benché accompagnata da certificati regolarmente vistati dai consoli dei Paesi alleati.

Non va taciuto a questo riguardo, che a più riprese le autorità di controllo hanno fatto presente che il trattamento riservato all’Italia era assai più favorevole di quello imposto ai Paesi neutrali confinan­ti con la Germania, i quali quasi tutti hanno dovuto subire il princi­pio del contingentamento.

Quando, tuttavia, si consideri la sfera delle responsabilità e degli interessi a raggio mondiale, propria di una grande Potenza come l’Italia, apparirà evidente che ogni confronto tra il trattamento fatto ad essa e quello riservato agli altri Paesi non è possibile, data l’entità di gran lunga superiore degli interessi italiani; ma anche ammetten­do che una preferenza di trattamento sia stata fatta all’Italia, ciò non attenua, ma anzi tanto più accentua, la intollerabilità della situazio­ne denunciata dall’Italia.

Vi è una naturale solidarietà, tra Paesi non belligeranti, basata sul comune diritto al rispetto della legge internazionale. L’Italia, per la sua tradizione, per la sua comprensione degli interessi altrui, per la stessa interdipendenza dei traffici serviti dalla vasta trama delle sue linee di navigazione in tutti i porti del mondo, ha sempre tenuto presente, nel formulare le sue rimostranze, questo vivo e ge­nerale interesse dei nostri a vedere assicurata la libertà degli scambi.

Per quanto più particolarmente riguarda il popolo italiano, i di­rottamenti, i fermi, i sequestri di merce, la censura postale, i divieti. di esportazione gli hanno mostrato tangibilmente e inconfutabilmente che, in una situazione come quella che esiste nel Mediterraneo, la sua libertà, il suo diritto di vivere, la stessa possibilità di lavorare e di svilupparsi possano essere da un momento all’altro annullati o gravemente messi in pericolo dalla volontà di una Potenza non me­diterranea. questo è il preciso insegnamento di nove mesi di “con­trollo”.

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