Il distacco della produzione d’acciaio italiana rispetto a quella degli altri belligeranti era enorme nella prima guerra mondiale, completamente moderna della storia, che, fin dall’inizio, era basata sui mezzi corazzati, sui camion, sugli aerei, insomma su acciaio, ferro, leghe leggere.

Tuttavia non eravamo produttori di ferro, pertanto il dato deve essere considerato nella scarsa diffusione dell’acciaio in italia, per esempio non veniva utilizzato a pieno nelle costruzioni, a favore delle strutture in cemento armato.

Ogni gruppo industriale aveva una sua fonderia, in sintesi.

ILVA

L’Ilva/Italsider è stata una delle maggiori aziende siderurgiche italiane del XX secolo. La sua storia è centenaria e ha avuto inizio ai primi del Novecento, quando è nata per iniziativa di industriali del settentrione d’Italia come ILVA (nome che ha poi riacquistato dagli anni novanta).

I Coils, grossi nastri di acciaio arrotolato, mediamente del peso di 30 tonnellate.
Nel periodo della prima guerra mondiale, per sfruttare le opportunità offerte dalle commesse belliche, l’Ilva si integrò a valle acquisendo aziende cantieristiche ed aeronautiche; questo richiese ingentissimi investimenti e conseguenti debiti, che, a guerra finita, misero l’Ilva in gravi difficoltà finanziarie.

Con la nascita dell’IRI la società è passata poi sotto il controllo pubblico impiantando stabilimenti a Genova-Cornigliano, Taranto e quello di Napoli-Bagnoli.

Nella notte tra il 10 e l’11 marzo avviene il Bombardamento di Napoli del 1918 del dirigibile tedesco Zeppelin LZ 104 che partito dalla Bulgaria lancia bombe e colpisce anche l’ILVA di Bagnoli. Negli anni sessanta la società è diventata uno dei maggiori gruppi dell’industria di stato.

L’operazione di cessione a privati dello storico complesso – un tempo colosso della siderurgia – ha destato polemiche e perplessità in special modo fra dirigenza industriale, amministratori pubblici e popolazioni delle aree in cui si trovavano gli insediamenti produttivi, zone fortemente minate dall’inquinamento industriale provocato dalla presenza di altiforni.

Con gli anni novanta è iniziata la laboriosa opera di dismissione degli impianti produttivi e una riconversione delle aree precedentemente occupate dagli insediamenti siderurgici.

Opere di riempimento delle aree a mare necessarie all’edificazione delle Acciaierie di Cornigliano – Ilva, autocarri ribaltabili della Berta Autotrasporti che saranno poi sostituiti, dopo la Seconda guerra mondiale, con Mack M123 e AEC Matador, riconvertiti a civile. Fo

L’atto di costituzione dell’ILVA, avvenuto nel capoluogo ligure, risale al 1º febbraio 1905  dalla fusione delle attività siderurgiche dei gruppi Elba (che operava a Portoferraio), Terni e della famiglia romana Bondi, che aveva realizzato un altoforno a Piombino.

Il capitale sociale iniziale della società anonima era di dodici milioni di lire e di esso facevano parte la società Siderurgica di Savona (controllata dalla società Terni), la Ligure Metallurgica e, in forma diretta, la stessa Terni. Successivamente si aggiunse al capitale iniziale – portandolo a venti milioni – quello della Elba, il cui ingresso veniva a completare la compagine societaria.

Il gruppo base Terni-Elba – attivo nel settore dell’estrazione del minerale di ferro soprattutto nell’isola d’Elba – era controllato da esponenti della finanza genovese[13] che intendevano sfruttare le agevolazioni programmate con la legge per il risorgimento economico di Napoli – varata nel luglio 1904 – che prevedeva l’installazione entro il 1908 di un grande impianto a ciclo integrato a Bagnoli.

L’Ilva era stata costituita, con il sostegno governativo, per realizzare il polo siderurgico di Bagnoli, nell’ambito dei progetti di sviluppo del Mezzogiorno, elaborati dal meridionalista Francesco Saverio Nitti, allora semplice deputato. Lo stabilimento avrebbe goduto di agevolazioni per comprare il minerale ferroso a prezzo basso e, nel contempo, lo stato erigeva forti barriere doganali contro la concorrenza delle più efficienti imprese straniere .

Nel 1911 la società entrò a far parte del “Consorzio siderurgico” o “Consorzio Ilva”, che comprendeva anche gli Altiforni di Piombino della famiglia Bondi, nonché la società Elba, la Siderurgica di Savona, la Ligure metallurgica e le Ferriere italiane, queste ricollegabili alla Terni.

Dopo aver vanamente tentato la scalata della Terni, nel 1918 il finanziere romano Massimo Bondi si impadronì dell’Ilva, della Siderurgica di Savona, della Ligure metallurgica e delle Ferriere italiane, e le incorporò nella sua Piombino, di cui cambiò la ragione sociale in Ilva – Altiforni e acciaierie d’Italia.

Nel 1921 scoppiò una nuova crisi siderurgica, causata da una ripresa delle esportazioni americane. Le acciaierie italiane erano indebitate per costruire impianti sovradimensionati, perciò soccombettero. Il valore di listino dell’Ilva crollò. In questa situazione la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano, le maggiori creditrici dell’azienda, ne rilevarono la proprietà assieme a quella di numerose imprese siderurgiche minori.

In seguito alla crisi del 1929, anche la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano entrarono in crisi e, insieme a tante altre aziende, dovettero essere salvate dallo stato, attraverso l’IRI. Così anche l’Ilva e tutte le altre imprese possedute dalla Banca Commerciale passarono in mano pubblica: tutta la siderurgia italiana a ciclo integrale (altiforni di Portoferraio, Piombino, Bagnoli e Cornigliano) era posseduta dallo Stato attraverso l’IRI.

Acciaierie Ansaldo di Cornigliano SIAC

A Campi,  l’Ansaldo nel 1897 acquisisce un’officina siderurgica, della Società Italiana Delta, e successivamente a partire dal 1902 al 1912 prima Ferdinando Maria Perrone divenuto proprietario dell’Ansaldo e poi i suoi figli ampliano l’impianto con nuove attrezzature, capannoni e magazzini allargandosi a macchia d’olio su tutto il territorio della bassa Val Polcevera.[1] Il disegno di Ferdinando Maria Perrone era di poter controllare tutti i processi produttivi legati alle trasformazioni del materiale ferroso: dallo scavo del carbone (miniere e stabilimento di Cogne) alla realizzazione dell’acciaio per la produzione dei prodotti finiti. In essi l’Ansaldo produrrà, nel tempo, dalle locomotive alle automobili, dalle macchine fotografiche alle turbine a vapore, dai proiettili di artiglieria alle strutture necessarie alla realizzazione delle grandi navi da guerra e passeggeri.[1] Il nuovo stabilimento Ansaldo fu attrezzato con magli e presse di varie dimensioni. Nei primi anni Dieci una grande pressa da 8.000 ton era stata installata, ma si rese necessaria una macchina ancora più potente per produrre fucinati di grandi dimensioni e corazze navali, quali la crescente industrializzazione del paese richiedeva. Così il 1º aprile 1913 Ansaldo, dopo una gara fra i possibili fornitori per una grande pressa, ordina alla Soc. Haniel & Lueg di Dűsseldorf “una pressa idraulica a fucinare e sagomare da 12.000 tonnellate di pressione con 520 atmosfere, al prezzo di Lit. 730.000”.

Ancora nello stesso mese di aprile, in accordo con il fornitore, Ansaldo modifica l’ordine sostituendo “una pressa a sagomare di 12.000 ton” alla pressa a fucinare e sagomare oggetto del contratto precedente. Con tale modifica la macchina cambia completamente aspetto e dimensioni ed il prezzo scende a Lit.496.000. La nuova macchina è, infatti, più semplice della precedente: nella prima l’equipaggio premente scende dall’alto e deve essere richiamato con pistoni ausiliari, nella seconda invece sale dal basso e può discendere per gravità, avendo quindi un circuito idraulico meno complesso.

La nuova pressa ha una considerevole distanza fra le colonne, per consentire la raddrizzatura a caldo di grandi e spesse corazze navali. La traversa superiore è registrabile in altezza con un congegno elettromeccanico. Quella inferiore è spinta verso l’alto da due enormi pistoni alimentati dall’acqua in pressione. La potenza è sempre “12.000 tonnellate di pressione con 520 atmosfere”. Questa dicitura fu voluta espressamente dall’ing. Perrone, direttore generale, che in un appunto a mano sulla minuta dell’ordine scrive: “il fornitore prende atto del desiderio della ditta Ansaldo che sia cambiata l’intestazione dei piani mettendo su tutti l’indicazione della potenza di 15.000 ton”. La pressa quindi, presumibilmente per motivi di pubblicità, sarà chiamata da 15.000 ton anche se nella realtà non lo era. Contestualmente venne ordinato un carroponte di potenza adeguata ai grandi pezzi che si sarebbero lavorati sulla pressa, le parti accessorie, le opere edili con fondazioni che arrivarono a 7 metri di profondità rispetto al piano d’officina. La pressa venne consegnata nei tempi contrattuali e messa in funzione definitivamente a inizio 1915.[1]

La pressa lavorò per decenni a forgiare, sagomare, spianare grandi pezzi del peso di decine di tonnellate, per ricavare assi portaelica, corazze per navi, casse e rotori per turbine, dritti di prora e di poppa, assi del timone, e fu operativa fino alla fine degli anni Ottanta. In tutta Italia non ci fu altra pressa più potente per lungo tempo; solo nel 1935 le Acciaierie di Terni installarono una pressa della stessa potenza: 12.000 ton.

SIAC
La società nasce nel 1934 con il nome di Società Italiana Acciaierie di Cornigliano (SIAC) con l’obbiettivo di raggruppare e razionalizzare le attività siderurgiche dell’Ansaldo, avviate sin dal 1898 e incentrate negli stabilimenti di Campi (Genova). Nello stesso anno la società passò sotto il controllo dell’IRI.[2]

Nel 1938 l’intero pacchetto azionario era in possesso della Finsider; Nel 1938 la SIAC su impulso di Agostino Rocca e Oscar Sinigaglia progetta un nuovo grande impianto siderurgico a ciclo integrale di cui viene avviata nell’anno successivo la costruzione dello stabilimento nel quartiere di Cornigliano vicino al mare che, dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale, fu dedicato a Oscar Sinigaglia. Terminato nel 1942 non entrerà mai in funzione poiché dopo l’armistizio verrà smontato dalle truppe tedesche presenti in città e trasferito in Germania.

Nel 1950, dopo l’azione di recupero degli impianti asportati dai tedeschi, la SIAC riavvia le attività per la ricostruzione e l’ampliamento che nel 1951 vengono affidate alla Cornigliano Società per Costruzione Impianti Industriali. Costituita nel 1948 nell’ambito Finsider questa società, con atto di apporto del 9 ottobre 1951, rileva lo stabilimento che verrà poi intitolato ad Oscar Sinigaglia assumendo la denominazione sociale di Cornigliano S.p.A.[3]

Acciaierie di Terni

Alla fine della prima guerra mondiale gli ordinativi statali crollarono, mettendo la SAFFAT di fronte allo spettro del collasso finanziario, nonostante fosse stata presa l’iniziativa di costruire un nuovo laminatoio per lamierino magnetico. L’intervento della Banca Commerciale Italiana  che assunse il controllo della Terni e, soprattutto, la competenza manageriale di Arturo Bocciardo, fiduciario della stessa banca, furono decisivi. A partire dal 1922, quando la SAFFAT mutò il nome in Terni Società per l’Industria e l’Elettricità, più semplicemente chiamata Terni, acquistò la Società Industriale per il Carburo di Calcio, Acetilene e Gas, con stabilimento sempre a Terni, con un apprezzabile patrimonio idroelettrico capace di sviluppare poco più di 9000 Kw[17] e con una piccola azienda partecipata, la Società Italiana per l’Ammoniaca Sintetica (SIAS).[18] La componente siderurgica, tuttavia, rimase preponderante ed assorbì gran parte degli investimenti sull’impiantistica, fra cui 4 nuovi laminatoi per tondini di ferro, bande stagnate, lamiere sottili, ed un forno elettrico.

Nel 1927 la fusione della Vickers-Terni con i cantieri Odero portò alla creazione della Odero-Terni e nel 1929 con l’inserimento dei Cantieri Orlando si ebbe la nascita della Odero-Terni-Orlando (OTO), che controllava le attività cantieristiche dell’alto Tirreno e il cantiere Ansaldo-San Giorgio, mentre l’acquisizione del complesso idroelettrico Nera-Velino, strappata alle comunità locali in cambio di fornitura di energia elettrica, permise alla Terni di acquisire il più grande bacino idroelettrico d’Europa, con una potenza di 171.000 Kw nel 1931.[19]

La storia della Terni è legata a quella della Valnerina anche in relazione alla presenza della tranvia Terni-Ferentillo, promossa e realizzata nel 1901-1909 ad opera della Società Imprese Elettriche in Italia e della Società per Carburo di Calcio, che nel 1922 fu ceduta anch’essa alla “Terni”. La STET, società esercente della tranvia[20], acquisì contestualmente anche il raccordo ferroviario fra la stazione e lo stabilimento di Terni razionalizzando così i traffici viaggiatori e merci. L’intero impianto fu chiuso nel 1960.

Gli anni 1931-1932, particolarmente critici per l’equilibrio del sistema bancario italiano, che risentiva solo allora della grande depressione del 1929, furono decisivi per le sorti della Terni, che erano state fino ad allora legate ai finanziamenti statali e bancari. Quando la Banca Commerciale Italiana fu salvata attraverso l’acquisizione da parte dell’IRI, anche le società controllate, fra cui la Terni, entrarono a far parte del gruppo statale[11].

Mussolini e Alberto Beneduce, presidente dell’IRI, riconoscendo nella Terni un’importante componente dell’industria strategica nazionale, appoggiarono la soluzione di inserirla nella Finsider, insieme all’Ilva e alle acciaierie dell’Ansaldo. Le attività cantieristiche navali, che avevano fatto la storia della società, furono scorporate ed inserite, insieme ai cantieri Ansaldo-San Giorgio nella società Cantieri Navali del Tirreno e Riuniti, mentre la siderurgia, insieme alla componente elettrica e chimica, continuarono ad essere il perno produttivo della Terni.

Il corso autarchico dato all’economia nazionale dal Governo, favorì notevolmente la Terni, che incrementò le sue produzioni con l’installazione di 4 nuovi forni da 25 tonnellate, una pressa da 12.000 tonnellate, nuove officine per la produzione di cannoni e proiettili. Nel 1940 vi risultavano occupati poco meno di 10.000 addetti, capaci di sfornare 66.000 tonnellate di acciaio bellico.

Il settore idroelettrico fu adeguato allo sviluppo dell’impianto siderurgico con la costruzione di nuove centrali sul fiume Vomano che fecero salire la generazione di energia elettrica a 1,3 miliardi di Kwh, e delle dighe del Salto e del Turano in provincia di Rieti. Con queste credenziali la Terni partecipò allo sforzo bellico della Seconda guerra mondiale, tanto che i suoi impianti furono uno degli obiettivi sia dei bombardamenti alleati sia della rappresaglia tedesca.

Terni Archeologia Industriale Il balipedio delle Acciaierie di Terni – Terni Archeologia Industriale

BREDA

Nel 1916 la Breda allestì sulla stessa area dei reparti fonderia e fucina uno stabilimento siderurgico dotato di una grande acciaieria e di vari laminatoi. All’inizio degli anni Venti il reparto siderurgico fu organizzato in sezione IV. L’attività di questi stabilimenti conobbe per tutti gli anni Venti e Trenta un continuo incremento (nel 1924 entrarono in funzione tre grandi forni elettrici per la produzione di lingotti d’acciaio, nel 1932 vennero posti in produzione vari tipi di acciai speciali), permettendo alla Breda, a ridosso della seconda guerra mondiale, di divenire il sesto produttore italiano d’acciaio.

Con l’ingresso in guerra dell’Italia nel 1940, la Breda intensificò la produzione siderurgica: tra il 1940 e il 1942 entrarono in funzione due moderni forni elettrici per produrre ghisa, ampliando l’offerta fino a 150 tipi di acciai speciali.

Dopo il 1945, la sezione IV continuò la produzione di acciai ritornando, nel 1948, ai livelli produttivi d’anteguerra

Sesto San Giovanni – Società italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche (Sieb) – Sezione IV siderurgica – Altiforni – Bozzetto Reparto fotografico Breda (attr.)

DALMINE

La Società anonima tubi Mannesmann venne fondata a Milano il 27 giugno 1906 ad opera della Deutsch-Oesterreichische Mannesmannröhren-Werke di Düsseldorf, della Società metallurgica italiana di Livorno e di Eugen Hannesen, che assume la carica di amministratore delegato.

Nel 1908 iniziò la costruzione dello stabilimento di Dalmine e nel 1909 venne prodotto il primo tubo d’acciaio.

Nel 1911 la Società metallurgica italiana cede le proprie azioni al partner tedesco.

Allo scoppio della prima guerra mondiale la proprietà fu rilevata e incorporata dall’azienda siderurgica bresciana Società alti forni fonderie acciaierie e ferriere Franchi-Gregorini.

Nel 1920 venne costituita la nuova Società anonima stabilimenti di Dalmine.

Dopo il conflitto la società si ritrovò, come molte altre aziende in quel periodo, in una difficile situazione finanziaria; così la Franchi Gregorini cede le proprie quote alla Banca Commerciale Italiana e alla FIAT che nel 1923 cedette le proprie quote alla banca.

Nel 1924 venne quotata in borsa. Nel 1933 la Dalmine seguì il destino di tante altre aziende siderurgiche (Ilva, Acciaierie di Terni) e cantieristiche (Ansaldo) in difficoltà, che erano state rilevate dalle banche e che furono salvate con la costituzione dell’IRI.

Nel 1937 la Dalmine viene ceduta al gruppo Finsider. In quel periodo la ristrutturazione della compagnia fu seguita per conto della Finsider dall’ingegner Agostino Rocca, futuro fondatore del gruppo Techint che avrebbe acquistato proprio la Dalmine nel 1996: sotto la sua guida la compagnia era una delle prime nel settore del ferro e dell’acciaio.

Nel 1939 la ragione sociale viene modificata in Dalmine S.A., portata poi a Dalmine Spa nel 1946.

Nel luglio 1944 gli stabilimenti furono bombardati e solo nel 1946 tornarono pienamente in servizio.

COGNE

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Stabilimento siderurgico Piombino

Con lo scoppio della prima guerra mondiale la richiesta dei prodotti siderurgici diventa spasmodica e a Piombino la produzione di ghisa arriva a sfiorare le 500 tonnellate al giorno. La Altiforni di Piombino, che dal 1911 fa parte del consorzio Ilva, creato per ristrutturare gran parte della siderurgia italiana gravata da pesanti debiti, attraverso una serie di scalate borsistiche avviate da Massimo Bondi ed alimentate dal grande flusso di denaro anticipato dallo Stato italiano durante la guerra entra in possesso di tutti gli impianti del consorzio Ilva, trasformandosi in “Ilva – Acciaierie d’Italia”. Finita la guerra, la crisi si affaccia inesorabilmente anche in Toscana e i suoi effetti si fanno sentire nell’acciaieria. L’attività si riduce ad un livello minimo, per poi arrivare ad essere sospesa nella seconda metà del 1921 quando il crack finanziario della famiglia Bondi lascia tutti gli impianti Ilva, tra cui quello di Piombino, nelle mani delle banche.

Dopo sei mesi, passato il periodo buio, le attività lavorative riprendono progressivamente e la produzione aumenta fino a raggiungere e superare i livelli del periodo pre-crisi. Successivamente, sotto lo slancio di una rinnovata spinta commerciale, lo stabilimento continua il suo sviluppo, costruendo nuovi impianti per lo stampaggio a freddo e a caldo delle traverse metalliche e fabbricando i primi edifici adibiti a spogliatoi. Il numero dei dipendenti è ora attestato sulle 2500/2600 unità, mentre la città di Piombino, di pari passo all’attività industriale, conta circa 30000 residenti.

Gli anni del primo dopoguerra sono segnati dal controllo della Banca Commerciale Italiana che mette a capo dell’Ilva il senatore Arturo Bocciardo. Gli investimenti scarseggiano mentre le acciaierie a ciclo integrale non sono prese in considerazione nelle politiche industriali dell’epoca. Nel 1936, in seguito alla crisi mondiale e a quella bancaria, lo stabilimento passa sotto il controllo dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), un ente pubblico italiano istituito dall’allora presidente del consiglio Benito Mussolini con il fine di gestire tutte le industrie controllate fino ad allora dalle grandi banche italiane. L’anno seguente, per gestire gli stabilimenti siderurgici acquisiti dall’Iri fu creata la Finsider.

Sotto la nuova gestione e sotto l’indirizzo di importanti tecnici come Agostino Rocca ed Oscar Sinigaglia riprende l’interesse verso gli impianti a ciclo integrale e quello di Piombino attira importanti finanziamenti tesi a ristrutturarlo e ad ampliarne la capacità produttiva.

Il 10 settembre 1943 però, a causa del secondo conflitto mondiale, l’attività di rinnovamento viene bloccata e il controllo dello stabilimento passa alle autorità militari tedesche che, nel 1944, minano e fanno saltare tutta la zona. Rimane così solo la vecchia centrale elettrica che costituirà poi la base per la ricostruzione.

Nel periodo della liberazione i luoghi dove sorgeva lo stabilimento, così come la città circostante, si presentano come un grande e desolante cumulo di macerie.

Nell’ottobre del ’44 inizia l’opera di sgombero delle macerie ed una successiva analisi generale evidenzia che purtroppo il 77% degli impianti è distrutto. Ciononostante, nel giro di dieci anni, tutti gli impianti vengono ricostruiti ed indirizzati verso la produzione di profilati pesanti, oltre che di rotaie ferroviarie. Con questa nuova ristrutturazione, lo stabilimento occupa una superficie di circa 900.000 m² di cui 11.200 coperti; la rete ferroviaria per le movimentazioni interne è di circa 45 km, mentre le strade interne hanno uno sviluppo di circa 10 km; la produzione si avvicina al milione di tonnellate l’anno e il personale in forza allo stabilimento risulta intorno alle 2500 unità (c.a. 2200 operai, 100 intermedi, 200 impiegati e 10 dirigenti).

STABILIMENTO SIDERURGICO DI BAGNOLI

Lo stabilimento siderurgico di Bagnoli, sorto per sfruttare i benefici della legge speciale per Napoli del 1904, entra in produzione nel 1910, occupando circa 1.200 operai. I programmi dell’Ilva sono però fortemente condizionati dal “salvataggio” del settore operato nell’estate del 1911 sotto la guida del direttore della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher, e anche l’impianto napoletano subisce un ridimensionamento rispetto al progetto iniziale.

Non si hanno particolari notizie delle relazioni industriali in quei primi anni, ma a giudicare dalla rilevante posizione assunta nella società Ilva da Teodoro Cutolo (1862-1932), l’organizzazione di fabbrica può desumersi come piuttosto severa.

Alla vigilia del conflitto gli operai sono più che raddoppiati (2 500 circa) e aumentano ulteriormente durante la guerra, sotto il regime della “mobilitazione industriale”. L’Ilva è tra le prime aziende a ottenere il requisito della “ausiliarietà”, tramite il quale organizza l’attività produttiva in base alle esigenze belliche della nazione.

Dopo l’esordio speculativo dei primi esercizi, caratterizzato dalla distribuzione di dividendi con metodi finanziari poco rigorosi, è ancora sul piano borsistico che maturano eventi decisivi per l’Ilva, quando, nel 1917, Massimo Bondi (1883-1927) comincia quella scalata il cui sbocco sarà, nell’estate 1918, la nascita della grande Ilva. La nuova società nasce con un programma ambizioso, basato sulla polisettorialità e mirante al controllo diretto di tutte le attività collegabili alla produzione siderurgica. Un’impostazione sicuramente moderna e capace di turbare gli equilibri economici, ma minata alla base da una scarsità di mezzi propri e, conseguentemente, da un eccessivo indebitamento e soprattutto da una modalità di generazione dei profitti dipendente dalle commesse statali.

Nel maggio del 1921 Bondi è sfiduciato dalla Banca commerciale, che lo sostituisce con Arturo Bocciardo (1876-1959). Già dall’anno precedente lo stabilimento di Bagnoli ha chiuso i battenti e sarà riaperto, per volontà politica del Governo fascista, soltanto nel 1924.[

La grande crisi economica mondiale coglie le banche miste fortemente immobilizzate. L’Ilva rientra nella sfera della Banca commerciale e dunque finisce nella Sofindit, la finanziaria chiamata a raccogliere le partecipazioni industriali della banca. L’uomo Sofindit al quale il Ministro Jung prima, e poi il Presidente dell’IRI, Alberto Beneduce, affidano il mandato di riorganizzare l’intera siderurgia italiana è Oscar Sinigaglia (1877-1953).

Sinigaglia è un convinto assertore del ciclo integrale, in alternativa a quello del rottame voluto dai gruppi privati (Falck). Con entusiasmo e coraggio presenta un piano che prevede la ristrutturazione e il rilancio degli impianti di Piombino e Bagnoli.

La sua esperienza a capo dell’Ilva (viene designato Presidente nel 1932) dura sino al 1935. Nel mese di ottobre del 1935 entra nel Consiglio d’amministrazione dell’Ilva Francesco Giordani (1896-1961), il quale, sia pure con molte cautele, sostiene la siderurgia integrale. Nei mesi e negli anni successivi, la lenta convergenza sulle stesse posizioni di Bocciardo e la tenace battaglia di un altro tecnico di provenienza Sofindit, Agostino Rocca (1895-1978), fanno sì che l’industria di Stato prenda le distanze da quella privata attraverso il riconoscimento di interessi contrapposti.

Nel giugno 1937 nasce la Finsider, holding di settore dell’Iri, alla cui testa è posto Bocciardo, che recupera gran parte delle idee di Sinigaglia, e governa un acceso scontro tra il progetto di Rocca relativo alla costruzione di un terzo centro siderurgico a Cornigliano e l’idea alternativa di Giordani che vorrebbe potenziare lo stabilimento napoletano. La produzione di ghisa a Bagnoli tra il 1934 e il 1940 passa da 110 000 a 317 000 tonnellate, mentre quella dell’acciaio da 138.000 a 177.000. Il numero di occupati, sfruttando anche il ruolo che il Fascismo assegna a Napoli, fra le più importanti città dell’Impero, giunge nel 1937 a superare le 4.000 unità.

La guerra produce danni ingenti agli impianti.

I maggiori a Bagnoli sono quelli procurati, nel settembre del 1943, dai tedeschi in ritirata.

Di fronte alla resistenza degli alleati a consentire la ripresa produttiva a Bagnoli, sono le stesse maestranze ad assumere spontaneamente le iniziative necessarie alla riapertura.

Nel corso del 1944, da marzo a giugno, gli operai passano da 500 a 800.

 

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